Recensione: Omicidio al Cairo, di Tarik Saleh. Al cinema dal 22 febbraio

Recensione a cura di Mario Turco

Il thriller è un genere spesso deputato dagli autori alla mise en abyme di un particolare periodo storico. Piuttosto che fare un film di denuncia puro si preferisce in questi casi raccontare una singola vicenda di stampo noir per far cogliere allo spettatore come il peculiare clima dei tempi e la connotazione geografica siano sempre inscindibili dalle fortune o avversità dei singoli. “Omicidio al Cairo”, di Tarik Saleh nelle sale italiane dal 22 Febbraio distribuito da

Movies Inspired e presentato in anteprima al Sundance dove ha vinto il World Cinema Grand Jury Prize appartiene orgogliosamente a questa schiera di film che raccontano una storia di (presunta) bassa criminalità per disegnare un quadro a tinte fosche della storia più recente. 

Partendo dal vero omicidio occorso ai danni della famosa cantante libanese Suzanne Tamin che vide coinvolto anche un esponente del Parlamento egiziano, il film dello svedese (ma di chiare origini arabe) Saleh mette in scena quella vicenda inserendola pochi giorni prima della caduta del dittatore Hosni Mubarak. Al centro dell’opera c’è l’indagine portata avanti con molta indolenza dal poliziotto Nouredin, tipico esponente delle locali forze d’ordine impegnate più ad arricchirsi tramite illeciti contrabbandi che a proteggere la povera popolazione locale. Il regista filma il tutto con fredda meticolosità, mostrando a più riprese come la corruzione sia un dato di fatto accettato da tutti e che non provoca nessun dilemma morale. 

Se la splendida fotografia di Pierre Aim, livida per gran parte del tempo e raffreddata persino nelle poche scene in esterni assolati contribuisce a colorare di fatalità i crudi avvenimenti, il pregio fondamentale del film sta proprio nell’intera direzione tecnica. A partire dalla scenografia che sceglie sapientemente i luoghi del malaffare e li mostra nel sua quotidiana routine fatta di gente poco appariscente ma silenziosamente truffaldina. “Omicidio al Cairo” restituisce anche allo spettatore che s’informa superficialmente degli eventi geopolitici tramite la tv tutto lo squallore delle alte istituzione egiziane. La povertà degli interni e delle stazioni di polizia o il caos delle strade dove grigi palazzoni si susseguono senza nessun criterio estetico sono solo la conseguenza di una politica che bada al proprio tornaconto personale e non esita a scomodare rapaci servizi segreti per mettere a tacere un imbarazzante liason con una cantante/prostituta. 

Il film di Saleh narra della progressiva presa di coscienza del protagonista che, in barba ai sentimentalismi hollywoodiani, arriva a ribellarsi a questo marcio status quo non attraverso chissà quale eroismo ma semplicemente facendo il suo dovere di tutore delle vittime d’ingiustizia. Solo che mentre intorno la situazione precipita e la polizia spara da un tetto in piena schiena ai manifestanti che osano chiedere un governo portatore di giustizia sociale, chiedere l’arresto del proprio zio colluso con i mandanti dell’assassinio di cui sta indagando non si risolve in un lieto fine liberatorio. Calci e pugni attendono infatti Nouredine e il suo tardivo risveglio etico. Ma, come si sa, la speranza collettiva nasce sempre dalla sconfitta del singolo e la rimozione della gigantografia di Mubarak che chiude il film testimonia ancora una volta la potenza catartica del cinema.

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