Recensione: IL BAMBINO IN CIMA ALLA MONTAGNA di John Boyne

Titolo: Il bambino in cima alla montagna
Autore: John Boyne
Editore: Rizzoli
Pagine: 320
Anno di pubblicazione: 2016
Prezzo copertina: 15,00 €


Recensione a cura di Eleonora Cocola


Pierrot non ha nemmeno sette anni quando rimane orfano. Il padre glielo porta via la Grande Guerra, capace di uccidere dentro anche i sopravvissuti, la madre gliela porta via la tisi. Così il piccolo lascia la sua amata casa di Parigi, affidando il suo cane all’amico Anshel, e finisce in un grande orfanotrofio. Quando si fa viva una misteriosa zia, che Pierrot non aveva mai conosciuto, la fortuna sembra girare dalla parte del ragazzino: finalmente può lasciare l’anonima
camerata dell’orfanotrofio e le prepotenze del bulletto Hugo per trasferirsi in una bellissima casa in mezzo alle Alpi bavaresi con quello che resta della famiglia di suo padre. Sembra la conclusione positiva di una storia triste, ma per Pierrot non è che l’inizio di una nuova vita: sua zia infatti è la governante della dimora di Berghof, la residenza di Adolphe Hitler, e il bambino avrà modo di conoscere da vicino il Führer proprio nel momento della sua ascesa al potere.

Che John Boyne privilegiasse usare come filtro della realtà gli occhi dei bambini, già si sapeva: a dieci anni dalla pubblicazione de Il bambino col pigiama a righe, trasformatosi in un bellisimo film, l’autore torna a raccontare il nazismo da un punto di vista inedito. A contendersi l’anima del piccolo protagonista de Il bambino in cima alla montagna è l’atavica lotta fra bene e male: nell’arco delle quasi 300 pagine di libro, che copre tutta l’infanzia di Pierrot, il ragazzino incontra una galleria di personaggi tutti in qualche modo toccati dalla guerra. In suo padre, reduce della Prima Guerra Mondiale, Pierrot ha modo di osservare gli effetti distruttivi del conflitto: la rabbia del tedesco umiliato ferito nella dignità, ma soprattutto distrutto nell’anima; il piccolo Anshel, il bambino sordomuto di origini ebraiche che scrive di tutto quello che vede, è l’amico fedele dell’infanzia; poi c’è il suo esatto opposto: Hugo, anche lui ebreo, tipico bulletto da cui il protagonista viene tormentato in orfanotrofio. La zia Beatrix cerca di dare a Pierrot l’affetto famigliare di cui ha bisogno, e nel tentativo di proteggerlo, onde evitare di contrariare il Führer che non ama i francesi, lo convince a cambiare il suo nome in Pieter e a comportarsi come un vero tedesco. Complice il carisma del signore di Berghof, Pierrot/Pieter trova nell’identità tedesca e nel mito ariano quel senso di appartnenza e di importanza che gli sono mancate, e che in qualche modo riescono a tamponare il dolore delle perdite e dei distacchi che ha dovuto affrontare in tenera età.

Il bambino in cima alla montagna, che potremmo definire un romanzo di formazione - o meglio di deformazione, è un libro intrigante, dallo stile semplice e dalla trama ben costruita anche se non troppo sviluppata, così come non sono particolarmente approfondite le psicologie dei personaggi; ma forse non ce n’è particolamente bisogno: le loro azioni e il loro destino sono piuttosto eloquenti. Sicuramente è un romanzo più adatto ai ragazzi, ma può regalare qualche ora di lettura interessante e scorrevole anche ai lettori adulti. 

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