La recensione di MEDEA, al cinema solo oggi 7 aprile

Recensione a cura di Eleonora Cocola

La tragedia di Medea secondo la versione di Euripide (431 a. C.) è ben nota: per vendicarsi del marito Giasone che l’ha abbandonata, Medea compie un crimine orrendo uccidendo i suoi stessi figli. Nella versione del National Theatre Live per la regia di Carrie Cracknell i personaggi si muovono nell’interno di una casa arredata modernamente; sullo sfondo si staglia un bosco oscuro, immagine dei meandri profondi della mente della protagonista; al di sopra di tutto, come sospesa, la reggia di Creonte, re di Corinto, dove si svolgono le nuove nozze di Giasone. I due bambini sono quasi sempre presenti in scena. Il coro di donne, solidali col dolore di Medea ma inorridite dal suo gesto finale, rende l’atmosfera cupa e suggestiva con danze dal sapore mistico e dai gesti sincopati, volutamente poco armonici, anch’essi (come è prerogativa del teatro-danza a cui si ispirano) latori della complessità dei sentimenti che si agitano durante la tragedia.

Tutti questi elementi scenografici concorrono a creare un clima inquietante in cui si percepisce l’incombere della tragedia: questo è possibile soprattutto grazie all’intensissima interpretazione di Helen McCrory (attrice nota soprattutto per aver interpretato Narcissa Malfoy nella saga di Harry Potter), che dall’inizio alla fine mantiene una tensione emotiva fortissima e palpabile. Medea è rappresentata in tutta la sua umanità di donna distrutta, il volto stravolto dalle lacrime, l’abbigliamento sciatto e maschile di una donna che ha perso tutto, anche la sua femminilità; della sua connotazione di maga non resta nessuna traccia, c’è spazio solo per la disperazione e la rabbia. Quella di Medea, come anticipa in un intenso monologo iniziale la nutrice (interpretata da una coinvolgente Michaela Coen), è una tragedia annunciata: nel suo animo le passioni hanno sempre avuto la meglio sulla ragione, tant’è che già in precedenza ha ucciso un consanguineo, suo fratello Apsirto, per amore di Giasone. Sia all’inizio che alla fine è quindi sottolineata l’inevitabilità degli avvenimenti.

Non c’è nessun indugio nell’ipotesi di una mancanza di salute mentale della donna a motivare l’orrendo crimine: questa versione della tragedia tiene molto a sottolineare la paradossale linearità del gesto estremo di Medea, la quale giunge alla decisione di uccidere i suoi figli solo dopo un lucido ragionamento. Nella sua passione totalizzante per Giasone, Medea aveva risolto tutta la sua identità: dopo aver tradito il padre e ucciso il fratello per amor suo, dopo aver abbandonato la terra natìa ed essersi condannata ad una permanente condizione di straniera, a Medea non rimaneva altro che quell’uomo e il loro amore. Abbandonandola Giasone l’ha privata della sua identità. Uccidergli i figli è l’unico modo per distruggere la vita di Giasone come lui ha fatto con la sua. Nessuna attenuante interviene a giustificare il gesto di Medea, neanche il trattamento sprezzante che Giasone le riserva nella versione di Euripide: la scelta della Cracknell è stata quella di prendere in prestito la variante di Seneca secondo cui Giasone dimostra ancora affetto a Medea (qui di più: le dimostra ancora passione), e confessa di sposare Creusa per motivi di convenienza, per poter assicurare una vita agiata a lei e ai loro bambini. Ma questo, invece di placarla, aiuta l’ira di Medea a trasformarsi in lucido ragionamento di vendetta. È quando pianifica l’assassinio della nuova moglie di Giasone e poi quella dei suoi stessi figli che Medea recupera la razionalità, elemento necessario al compimento del crimine. Anche a livello esteriore la McCrory riacquista a questo punto un aspetto femminile (anche nell’abbigliamento), come se vendicandosi potesse ricostruire quella sua identità fatta a pezzi.

Tuttavia, la Medea interpretata dalla McCrory non perde mai la consapevolezza che uccidendo i suoi figli condannerà anche se stessa. Il conflitto interiore del personaggio è ben rappresentato sia a livello di recitazione (sembra tentennare ogni volta che vede i due bambini), che a livello narrativo: fino all’ultimo è lì lì per tornare sui suoi passi; ma, proprio quando sembra che l’istinto materno abbia avuto la meglio, la decisione prende una piega definitiva, con un artificio narrativo intelligente che ben si presta a chiarire come funziona il rapporto tra mostruosità e ragione nella mente di questo personaggio: Medea guarda i suoi bambini dormire e si rende conto di non avere la forza di ucciderli. Il piccolo poi le ricorda il suo fratello minore... e allora ripensa a quel fratello che proprio lei, Medea, ha trucidato e fatto letteralmente a pezzi per aiutare Giasone a fuggire da Colchide. L’ira prende il sopravvento, si rafforza definitivamente la convinzione che Giasone deve avere un assaggio di quel dolore che lei prova, e l’unico modo per darglielo è uccidergli i figli.

La tragedia di Medea non si discosta poi tanto da molti fatti di cronaca nera, e contribuisce a ricordarci un monito fondamentale: non c’è bisogno di essere nati mostri o pazzi per compiere crimini come l’uccisione dei figli, la disperazione può essere sufficiente, le passioni umane talvolta assumono una forza che si trasforma in brutalità; come afferma Carrie Cracknell, «nei cuori spezzati si annidano gesti tremendi».

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